Devo farmene una ragione.Kossi Komla-Ebri ha scritto:Sì! Il migrante, colui che parte, frantuma tempo e affetti.
Salpando egli rompe con la sua terra, i suoi paesaggi, l’aria, gli odori, i profumi, i colori, i rumori, i suoni famigliari. Egli si porta a tracollo d’anima, un brandello della sua vita condito con l’acidulo fardello della nostalgia.
Colui che parte, si allontana convinto di lasciare dietro di sé un vuoto, uno spazio accerchiato e paralizzato, fisso lì nel tempo. Gli altri, asciugate le lacrime, continuano a vivere e lo cancellano o meglio si dilatano per occupare il suo posto. Ė come se uscisse dalla fila, e in un attimo loro si stringono e quel suo spazio non esiste più.
Colui che parte, va ad affrontare, a vivere un’altra vita. Egli, sotto altri cieli, entra nei panni di un altro personaggio, accede su un altro palcoscenico per interpretare un altro se stesso in un nuovo contesto: altro clima, altro paesaggio, altre conoscenze, altri affetti, altri suoni, odori, rumori, altri ritmi.
Fuori dal suo ambiente egli coltiva nel suo cuore, in un angolo della sua anima, la malinconia dei luoghi della sua infanzia: la saudade, la burka. Egli non sa ancora quanto ha sbriciolato irrimediabilmente la sua vita. Sotto altri cieli, cuore esiliato, egli affronterà, la diffidenza, la solitudine, l’umiliazione, la fame, la fatica attraversando i giorni del non essere come un pellegrino, in corsa verso chissà quale metà, senza fermarsi a gustare l’attimo presente nel miraggio sempre rimandato di un improbabile ritorno “a casa”, senza fermarsi mai a “vivere” davvero in terra straniera. Egli cova in sé, costeggiando, sfiorando il presente come un’ombra, nella mente e nello scrigno della memoria quelle schegge del passato come congelate lì nello spazio –tempo immutabile della memoria. Ricordi meravigliosi e amplificati. Egli non si accorge nemmeno che questo “spazio-tempo-presente”, che lo cambia, lo forgia innevando i capelli e fa dolorare le giunture è parte di vita, è la “sua vita non vissuta” che sfugge e non tornerà mai più.
Colui che parte vive nella visione del “ritorno”. Il ritorno, pensiero soffocato e soffocante condito di lacrime represse e di sospiri profondi. Il ritorno mille volte sognato, un film mille volte riavvolto, girato con protagonisti e comparse differenti, una sceneggiatura da fotoromanzo mille volte ritoccata, ma con unico attore principale: “Lui” stesso. La lettera d’annuncio, i bagagli, i regali da scegliere, la tensione dell’attesa, il vestito giusto -quello del successo-: segno tangibile della realizzazione del progetto migratorio. L’addio ai nuovi amici: ancora un “lasciare”. Poi il volo interminabile dell’aereo, l’arrivo, il caldo, l’ebbrezza degli abbracci, la gioia frizzante, il sudare, la sete, l’aria tiepida rimescolata dalle pale cigolanti e arrugginite d’un singhiozzante ventilatore. L’assalto ai regali, l’inevitabile questua. Poi lo informano, gli raccontano ed egli si accorge che la sua memoria è una giungla popolata di persone scomparse. Scopre dolorosamente, con una subdola fitta di gelosia e delusione che “loro” hanno continuato a vivere senza di lui e il suo posto, come un campo abbandonato, trascurato dal proprietario, è stato invaso da altri. I fratelli, sorelle e cugini sono cresciuti: li aveva custoditi piccoli nella sua “memoria d’isola che non c’è”. Addirittura qualcuno si è sposato e gli presenta moglie e nuova parentela. Sono nati bambini che lo guardano giustamente incuriositi…come si guarda ad un estraneo…già!
Quello che rode non è il pensiero che lo abbiano dimenticato. No, quello che brucia è accorgersi che mentre rimuginava e si nutriva per anni, giorno e notte di pensieri nostalgici, loro hanno continuato a vivere, normalmente senza di lui, come se non esistesse… come se fosse… morto. In terra straniera per definizione non esiste: è il Sig. nessuno. Lì neanche esiste più. Tutti chiedono dei suoi soldi ma nessuno chiede di lui. Il suo sospirato trionfo ha il gusto amaro di una sconfitta. Nessuno gli chiede: “Allora racconta!”. Quasi come se tutto quel soffrire fosse stato inutile. Tutte quelle esperienze vissute: vane. Incontrerà quello che dopo tutti questi anni lo scruterà intensamente per poi concludere: sei ingrassato! Come se fosse quella la cosa più importante, l’unico suo problema, l’unica battaglia che avrebbe dovuto o che ha dovuto combattere. Come ha vissuto in questi anni, tutto quello che ha potuto vedere, quelle ferite laceranti, quelle cicatrici che si porta dentro l’anima non importano a nessuno: anzi lui è stato privilegiato e fortunato. Vorrebbe urlare la sua rabbia repressa, fargli toccare le rughe della sua pelle avida di carezze, fargli sentire il peso della sua testa piena, stanca e desiderosa di una spalla accogliente, riposante. Vorrebbe squarciarsi il petto per esporre quel suo cuore ispido e inaridito dalla calura della lontananza. Nessuno gli chiede: “Allora com’è andata?”. Nessuno si stupisce dei suoi occhi spenti, prosciugati e dei suoi lunghi silenzi.
Ritorno agognato, sognato e temuto allo stesso momento. Temuto anche perché egli sa che è solo una parentesi e che dovrà ritornare indietro. Tre - quattro settimane che inizialmente sembrano durare un’eternità, stretto da una strana ed ambigua nostalgia della terra straniera, che suo malgrado ha scavato stigmate agli angoli della sua coscienza, rivestendolo di nuove abitudini –si fa presto ad abituarsi all’agiatezza- che gli rendono difficile riadattarsi. Poi mano a mano che si avvicinerà il momento di partire sarà assalito di nuovo dall’angoscia dell’abbandono, di perdere l’anonimato che si era riconquistato: essere uno come tanti in mezzo alla sua gente.
Colui che parte non appartiene più a nessun luogo. E’ figlio dell’utopia. Diventa come quelle anime vaganti insoddisfatte e smaniose alla costante ricerca dell’introvabile: un posto dove sentirsi pienamente “a casa”.
Solo se riesce ad assumersi in quello spazio critico d’identità traversa e a coniugare passato e presente dando coerenza alla sua molteplicità identitaria, egli potrà gustare la ricchezza di essere diventato cittadino del mondo.
Forse ho capito qual'è essenzialmente il mio problema: vorrei lasciare l'Italia. Questo paese ormai è diventato quel che è, e mi sembra del tutto arido di esperienze. Una società mediocre, per nulla all'altezza della tradizione culturale passata.
Mi rendo conto, a livello razionale, che andando all'estero le cose non cambierebbero, l'Eden non esiste da nessuna parte.
Ho toccato con mano la dimostrazione di questo, tante volte.
Eppure quando mi prende il bisogno fisiologico di partire - una volta in Francia, una volta in America, una volta chissà dove - è perchè così mi illudo di lasciarmi dietro sì gli affetti, ma anche le cose (e sono tante di più) che proprio non sopporto, che mi fanno stare male. Almeno per un po'.